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"...mi sono reso conto che stavo creando un ponte di collegamento tra tecniche tradizionali e fabbricazione digitale."
A pochi giorni dall’inizio della Fab City Residency – la settimana di residenza creativa promossa da Manifattura Milano all’interno del progetto europeo Centrinno – vogliamo presentarvi il primo dei due designer che animeranno lo spazio di BASE dal 1 al 9 aprile, Tobia Cecchin.
Tobia, classe 1989 da tre anni vive e lavora a Barcellona, si definisce un bio designer, un fotografo, un fashion designer, un maker.
Fin da bambino sono sempre stato immerso nel mondo del tessile grazie ai miei genitori, rispettivamente imprenditore di abbigliamento e sarta/modellista. Giocare e curiosare tra i filati e scarti tessili in magazzino è sempre stato uno dei miei giochi preferiti. Toccare, annusare a volta anche rompere questi materiali, hanno scatenato in me nel tempo un desiderio di scoperta, innovazione, passione. Penso che i primi input mi siano arrivati proprio girovagando nella ditta di mio padre: mentre mia mamma era al rimaglio – tecnica di lavorazione tessile che consiste nell’assemblare i vari teli per poter comporre il capo (ndr) – la domenica mattina e mio padre era in ufficio a disegnare la nuova collezione, io giravo tra macchinari e tessuti.
Questo mi fa pensare che la mela non sia caduta così lontana dall’albero.
Per quanto riguarda il fashion, senza ombra di dubbio mi ha ispirato principalmente Massimo Osti che è stato uno dei principali innovatori italiani. Da un punto di vista più generale e meno legato al tema tessile, seguo con molto interesse i lavori di Dave Hakkens, Suzanne Lee e Neri Oxman.
Devo dire però che oltre a questi, trovo d’ispirazione anche tutti i makers che in questi ultimi tempi hanno deciso di cambiare radicalmente il loro processo creativo puntando su un approccio più sostenibile.
La fabbricazione digitale si mescola omogeneamente con tecniche tradizionali e naturali rende molto bene l’idea di quello che si può ottenere da questa “transizione collaborativa”.
Gli aspetti digitali e l’attenzione agli impatti ambientali sono centrali nella mia produzione a partire proprio dal primissimo step: la progettazione.
Non si può andare avanti con delle “imitazioni eco” che sono oggettivamente i principi del greenwashing, c’è bisogno di una svolta al più presto possibile, ed io come altri designer ce la stiamo mettendo tutta.
Il progetto è un composto di tre essenze: ecologismo, sciamanismo e avanguardia.
Ho cercato di unire questi tre concetti con la volontà di creare un outfit completamente compostabile che potesse richiamare e simulare i materiali di un “outfit tradizionale”.
L’idea era proprio quella di creare un abito in grado di biodegradarsi tra i 6 e i 12 mesi al massimo. Durante la fase progettazione mi sono reso conto che stavo creando un ponte di collegamento tra tecniche tradizionali e fabbricazione digitale.
Una ricetta ben riuscita, ma ancora da perfezionare e sperimentare a lungo.
Voglio immaginare un futuro del tessile ad impatto zero sull’ambiente però allo stesso tempo con impatto forte sulla coscienza della persone: il consumatore in particolare è troppo focalizzato oggigiorno sull’hype del proprio abbigliamento rispetto all’impatto che i vestiti hanno sull’ ambiente circostante.
Un futuro per il tessile dove i tessuti e materiali saranno creati ad hoc in laboratorio o nei fablab e perché no, anche in casa dagli stessi scarti che produciamo.
L’obiettivo di poter creare, nella propria casa, con i propri scarti, il proprio abbigliamento penso che sia quasi un sogno. Un sogno che ho realizzato con il mio progetto e che è partito leggendo il manifesto della FabLab Foundation: una rete internazionale con lo scopo di creare piccoli realtà di laboratori – fablab – in cui il cittadino può portare scarti e oggetti e imparare a creare nuovi materiali o riparare oggetti rotti.
Penso che tocchi al singolo poter assimilare ed imparare delle semplici nozioni che consentano di essere sempre più “autonomo” ed indipendente dall’industria, autosufficiente.
Sicuramente siamo ancora molto distanti dall’utopia dell’economia circolare di quartiere, però vedo molto fervore negli ultimi anni: sono nate e cresciute associazioni ed enti che si occupano di raccogliere materiali, tessuti e vestiti donati dalle persone dello stesso quartiere/città.
Vedo che le persone sono più animate di prima dal desiderio di riparare, recuperare, scambiare rispetto a passare ore in fila davanti ad un negozio. Preferiscono passare del tempo in compagnia di altre persone imparando come riciclare, rammendare, aggiustare.
Una piccola luce in fondo al tunnel.
Quando facevo ricerca per l’università andavo in cerca tra magazzini e siti industriali per poter trovare materiali industriali a “poco prezzo”, ora cerco di collaborare con esercizi locali per raccogliere scarti, principalmente vegetali, per poter creare nuovi materiali e prodotti.
In questo momento sto collaborando in vari progetti: dal design di prodotto al tessile, ma anche nella coltivazione. Uno dei miei obiettivi a breve termine è quello di poter sostituire il maggior numero di prodotti usa e getta con prodotti bio-based.
Un altro sogno nel cassetto è aprire un “biofarmlab”, un luogo in cui è possibile coltivare per il proprio sostentamento e al tempo stesso utilizzare gli scarti per produrre e sperimentare nuovi materiali.
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